Guido Cornini
Leggi i suoi articoliCon l’intervista a Barbara Jatta, direttore dei Musei Vaticani, inizia il nostro percorso alla scoperta delle opere custodite nei musei del Papa. Ci accompagna tra le sale della Pinacoteca Vaticana Guido Cornini, storico dell’arte medievale e moderna, delegato scientifico della Direzione dei Musei Vaticani. Contestualmente alla titolarità del Reparto per l’Arte dei secc. XV-XVI, dal dicembre 2017 dirige il Dipartimento delle Arti dei Musei Vaticani.
Può tracciare per noi una breve storia della Pinacoteca?
Innanzitutto, è necessario premettere che la Pinacoteca ha una storia travagliata: è un’istituzione che non nasce nelle forme e nella consistenza che oggi vediamo, ma per aggregazioni successive di nuclei sparsi, che nel tempo approderanno alla situazione attuale. I primi indizi del formarsi di un collezionismo pontificio, che intenzionalmente raccolga opere d’arte in una visione di prospettiva museale, si ha già, nel Settecento, nel Palazzo Pontificio del Quirinale, attuale sede della Presidenza della Repubblica. Ovviamente, la visita alle collezioni era intesa ancora nell’antica accezione elitaria: limitata, cioè, a coloro che avevano accesso alla corte pontificia.
Il Palazzo di Monte Cavallo vede arrivare numerosi quadri, in parte provenienti dagli arredi principali delle sedi cardinalizie, su richiesta dei pontefici del periodo, in parte dal rinnovamento della basilica di San Pietro, in cui si stava attuando la sistematica sostituzione delle pale d’altare più antiche con pale in mosaico. A causa di particolarità microclimatiche e ambientali, in San Pietro molte opere andavano incontro a un rapido deterioramento. Si decide allora di sostituirle con copie in mosaico e di ricoverare e restaurare gli originali (di autori come Poussin e Valentin de Boulogne, ad esempio, che ora si trovano nella Sala XII) che saranno apprezzati da un pubblico via via crescente nelle fastose raccolte pontificie.
La situazione è più o meno questa fino ai tempi di Pio VI. Nel frattempo si era sciolta la Compagnia di Gesù (1773) e le collezioni gesuitiche a loro volta daranno un forte apporto alle collezioni, particolarmente con i dipinti ora nella Sala XIV: le nature morte di Seghers, i soggetti controriformati, le tele con sant’Ignazio di Loyola.
Pio VI sarà il pontefice che troverà una prima sede in Vaticano alla raccolta, collocata fra le attuali Gallerie degli Arazzi e dei Candelabri, quando tali ambienti si presentavano ancora come una loggia scoperta, poi modificata per permettere l’esposizione dei dipinti. L’ultima parte del pontificato di Pio VI coincide però con la rivoluzione del 1799, innescata dall’occupazione francese, che vede il commissariamento di Roma, l’esportazione delle opere d’arte e la dispersione di questo primo nucleo della Pinacoteca. Quasi tutte le opere finiscono a Parigi, insieme alle altre depredate da Bologna, da Perugia, e dai grandi centri del vecchio Stato della Chiesa, in ottemperanza del trattato di Tolentino (1797). Nel Musée Central des Arts, come si chiamava allora, trovano dunque posto i capolavori brutalmente sradicati dal contesto geo-culturale che li aveva prodotti, ciò che provocherà la forte opposizione di Quatremère de Quincy.
Al tempo stesso, però, le opere trasferite in Francia possono beneficiare di una sistemazione appropriata, da un punto di vista intanto conservativo (perché in questo modo saranno affidate alle cure di grandi restauratori) e poi soprattutto perché, per la prima volta, si afferma un messaggio di modernità, con la sottrazione delle opere a condizioni di fruizione ormai sentite come arcaiche. Dipinti e sculture, finalmente avvertiti come patrimonio dell’umanità, possono uscire dall’oscurità dei palazzi aristocratici e delle cappelline delle chiese, ed essere allineati in bella forma, a parete, e fornire così un disegno evolutivo della storia dell’arte, a vantaggio degli artisti, ma anche dei cittadini e delle giovani generazioni.
In questo contesto di crescita civile, che viene attuandosi nonostante l’iniquità delle requisizioni militari, le opere vengono ammirate da una società cosmopolita, intellettualmente motivata, attirata nella capitale francese dal suo accresciuto prestigio culturale Non dobbiamo dimenticare che, sull’onda dell’ideologia rivoluzionaria, Parigi era in quel momento la «capitale dal mondo», una città che si presentava all’Europa come un’Atene dei tempi moderni (e, dal 1804, per di più di rango imperiale): il Louvre (ribattezzato, per l’occasione, Musée Napoléon) diveniva così la vetrina ideale del nuovo potere politico, misura e banco di prova del successo della sua diplomazia e della forza delle sue armate.
Le novità apportate da queste aperture, nonostante il loro legame con la stagione illuminista, non rimasero senza seguito con la Restaurazione. Dopo la caduta di Napoleone, con l’apporto condizionante delle potenze in aiuto della Santa Sede, in particolare Prussia e Inghilterra, Canova si recò a Parigi, con le credenziali di ambasciatore, recuperando gran parte del patrimonio requisito. Qui ci limitiamo a vedere la pittura, ma c’era stata la sottrazione anche di sculture come il Laocoonte e l’Apollo del Belvedere: fu una spoliazione memorabile, purtroppo moderna anche nella volontà di umiliare il vinto sottraendogli le spoglie culturali.
Canova riuscirà a riprendere molto da Vivant Denon, primo direttore del Louvre, non senza addivenire a dolorose rinunce. Le opere tornarono sì, quindi, a Roma: ma con la condizione esplicita che fossero esposte alla pubblica fruizione e riunite in un’unica sede. Con il tempo, la grandezza pittorica d’Italia, nella successione delle varie epoche che l’avevano scandita, sarà finalmente presentata in modo moderno e ordinata per scuole e cronologia, così come avrebbe desiderato il Lanzi.
Quello del rientro delle opere da Parigi fu comunque un evento epocale, anche dal punto di vista della politica interna della Santa Sede, poiché fu necessario tenere a bada le proteste degli antichi proprietari, anche religiosi, dei dipinti che trovarono collocazione nei Palazzi Vaticani. La «Trasfigurazione» di Raffaello, ad esempio, proveniva da San Pietro in Montorio, da Perugia giungeva la Pala dei Decemviri di Perugino: in qualche modo, anche qui c’era uno sradicamento dalla realtà originaria.
Molte opere si aggiungono poi con gli acquisti da parte del Vaticano...
Sì, qui abbiamo, se vogliamo, un piccolo «Louvre», ossia una grande collezione di taglio interregionale che permette di seguire, con una certa robustezza di rappresentatività, intanto la componente territoriale corrispondente al vecchio Stato della Chiesa, ossia Roma e Bologna con gli Appennini e la fascia adriatica, ma anche Firenze e Siena. Queste ultime vengono intercettate e acquistate limitatamente ad alcuni autori, sentiti in quel momento come più rappresentativi del fenomeno che andava sotto il nome di Primitivismo.
Tali acquisti selettivi, che confluiranno poi nella Pinacoteca come oggi la conosciamo, vennero effettuati dalla Biblioteca Apostolica Vaticana, che costituisce inizialmente presso di sé, non raccolte museali di statuaria o di belle arti, ma di glittica, ceramica e archeologia catacombale, cioè di documentazione delle condizione di vita dei primi cristiani. Il Museo Cristiano di Benedetto XIV, fondato nel 1757, come poi quello Profano di Clemente XIII (1761), sono musei che nascono appunto nell’ambito della Biblioteca e anche i primi a fregiarsi del titolo di «Musei Vaticani». Istituzioni non ancora afferenti a una direzione unificata come la conosciamo oggi, ma affidate a figure di studiosi come Winckelmann, Vettori e, più tardi, Giovanbattista De Rossi, inquadrate nei ranghi della Biblioteca con compiti direttivi e di studio, sotto l’egida, rispettivamente, dei prefetti e dei cardinali-bibliotecari in carica, deputati alla custodia delle raccolte librarie come di quelle museali propriamente dette.
Schematizzando al massimo, questo stato di cose perdura, come in parte già detto, fino alla fine dell’Ancien Régime, cioè fino alla deposizione di Pio VI e all’occupazione di Roma da parte dei francesi: quindi più o meno fino alla direzione di Antonio Canova, il quale, sia sotto Napoleone sia, poi, sotto Pio VII, una volta restaurato il governo pontificio, gode delle qualifiche dai nomi diversi ma sostanzialmente equivalenti di «ispettore capo» e di «conservateur en chef». Le stesse raccolte museali – cui si erano nel frattempo venute ad aggiungere quelle di arte antica, costituitesi tra Clemente XIV e Pio VI nel Museo Pio-Clementino – continuavano ad essere gestite da due amministrazioni distinte, che dopo essersi chiamate per qualche tempo «imperiali», torneranno ad essere, dopo il Congresso di Vienna, nuovamente «pontificie».
Bisogna anche tener presente che per tutto questo periodo e fin quasi all’Ottocento inoltrato, taluni ambienti storici del Palazzo Apostolico, come le Stanze e l’Appartamento Borgia, ma anche spazi consacrati come la Cappella Niccolina e la Sistina, non erano inseriti, come oggi, in un percorso di visita unitario, ma restavano accessibili separatamente, con tempi e modalità dettate, negli ultimi due casi nominati, dal rispettivo calendario liturgico. Bisognerà attendere i pontificati di Gregorio XVI e di Pio IX perché, con l’aggregarsi di nuove collezioni (Museo Gregoriano Egizio, Museo Gregoriano Etrusco, Raccolte di pittura antica e di arti decorative della Biblioteca, Raccolte Epigrafiche e Museo Pio-Cristiano Lateranense …), prenda forma una struttura direttiva di taglio verticistico ma con competenze scientifiche differenziate, adeguate alla pluralità delle raccolte: l’antenata dell’attuale direzione dei Musei Vaticani. Sarà solo verso la fine del secolo scorso, però, e precisamente dall’ottobre 1999, che l’autorità di tale Direzione (che oggi, a norma della nuova Legge Fondativa dello Stato, estende le sue competenze a quelli che vengono definiti i «beni culturali della Santa Sede») verrà a esercitarsi anche su quelli che erano gli antichi Musei della Biblioteca, dove tutto era nato.
La Biblioteca, dunque, acquistava i «primitivi» come documenti storici del tempo in cui erano stati prodotti, e non in funzione di un apprezzamento estetico che, invece, verrà molto più tardi, con il Romanticismo. Si collezionavano questi dipinti quasi a voler mostrare i primi balbettii di un’ancora impacciata figuratività religiosa, sentita con distanza, priva di quella palpitazione affettiva che verrà solo in seguito e che permetterà finalmente di porre sullo stesso piano Raffaello e, ad esempio, artisti come Giotto, Arnolfo o Duccio di Buoninsegna. Questo è il processo che era iniziato già sotto Vivant Denon, al Louvre, tracciando, secondo un disegno enciclopedico, una corretta specchiatura museografica di quanto era accaduto nella storia delle arti.
La collezioni della Biblioteca erano esposte in quella che ora è chiamata la Sala degli Indirizzi, che raccoglieva opere di arte decorativa e piccole tavole scelte senza riguardo per quella che era la completezza del contesto di provenienza. Dobbiamo ricordare come, nel corso dell’Ottocento, per le leggi di soppressione dei conventi sotto Napoleone, prima, e sotto il neo-costituito Regno d’Italia, poi, sul mercato si rendevano disponibili numerosi complessi di pittura e di scultura, che invece di essere acquistati nella loro interezza, venivano smembrati. Ciò avveniva generalmente con l’assenso dello stesso clero che vi era preposto: l’autorità ecclesiastica diocesana, per parte sua, non aveva nulla da eccepire. Di fatto, il moderno concetto di tutela era ancora nella sua infanzia e precisamente in ragione di questo, d’altra parte, perfino il Vaticano, al pari di altri soggetti, era acquirente selettivo delle medesime macchine d’altare scomposte. È soltanto con il confluire di quelle collezioni nella Pinacoteca Vaticana propriamente detta – in particolare in quella passata alla storia come la Pinacoteca di Pio X (1909) – che verrà finalmente a stabilirsi un primo, coerente percorso di storia dell’arte, con nuclei collezionistici di diversa origine.
Nel tempo, ci saranno varie sedi per la Pinacoteca, come l’Appartamento Borgia, la Sala Bologna (per ben due volte), l’ala di San Pio V e gli ambienti al piano terreno del «corridore» di Pio IV. La raccolta non sembra trovare pace finché, sotto Pio XI, con i Patti Lateranensi, viene costruito questo edificio in stile eclettico, inaugurato nel 1932, dove trovano sistemazione finalmente definitiva le raccolte di pittura dei Papi: i dipinti si distribuiscono in una progressione di quindici sale (che salgono a diciotto, con l’«appendice» di quella delle icone e degli spazi attualmente dedicati a mostre), finalmente allestite con una certa comodità, pur tra problemi di clima e distanziamento. Il numero delle pitture esposte è difatti decisamente superiore alla superficie disponibile e questo comporta, per il visitatore medio, il poterle coglierle solo con uno sguardo d’insieme, senza soffermarsi su qualcuna in particolare, come invece tenteremo di fare in questa visita virtuale.
IL MUSEO INFINITO
Un viaggio dentro i Musei Vaticani accompagnati da guide d’eccezione: i curatori responsabili delle sue collezioni
A cura di Arianna Antoniutti
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